Cookie paywall, fra silenzi e scuse

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Leggere un articolo online inizia a diventare piuttosto seccante a causa dell’impiego frequente e diffuso dei cookie paywall. Viene però il dubbio se al di là del fastidio, che santo cielo possiamo liberamente provare per qualsivoglia cosa dell’universo mondo, non ci sia anche una violazione di qualche tipo di diritto. Anche perché è sempre bene ricordare che non tutto ciò che infastidisce lede un diritto e non tutto ciò che lede un diritto infastidisce.

Insomma, fino a che punto è lecito chiedermi di prestare un consenso affinché i miei dati di tracciamento online (che sono sempre dati personali, eh!) vengano utilizzati anche da terze parti per finalità commerciali, soltanto per poter accedere al sito di una testata online? E magari scoprire che dovrei pagare un abbonamento ulteriore per andarmi a leggere alcuni articoli per intero? Davvero è sufficiente darmi l’opzione alternativa di un accesso a pagamento “al buio” perché tutto sia perfettamente lecito e corretto?

Monetizzare i dati personali è possibile, ma bisogna comunque rispettare alcune regole a riguardo.

Nel momento in cui viene richiesto un consenso, questo dev’essere garantito in quanto informato, libero e specifico. Senza forzature e condizionamenti. Può essere possibile incentivare un consenso senza però mai incorrere in pratiche ingannevoli, quali ad esempio l’impiego di dark pattern. Se non sono rispettati i requisiti di un consenso valido, ogni attività svolta sui dati personali è illecita.

Nel caso dei cookie paywall ci troviamo in un ambito abbastanza di confine. O borderline.

Ma chi si è astenuto dall’intraprendere iniziative che si collocano in una gamma che va da “creative” a “spregiudicate”, ne esce però danneggiato per aver assunto un atteggiamento di protezione e tutela degli interessati rinunciando a realizzare alcuni margini di profitto.

Con buona pace dell’esigenza di promuovere l’approccio responsabile all’impiego dei dati personali che bada a garanzie sostanziali e a scenari di tutela.

L’assordante silenzio sui cookie paywall

Si può dire che sia un problema che riguarda l’impiego di dati personali, e dunque di competenza delle autorità di controllo privacy? Credo proprio di sì. Dopodiché ci sono risvolti anche in tema antitrust, dal momento che è indubbio che oggi l’impiego dei dati comporti anche un vantaggio competitivo.

Spoiler: il meccanismo di consent-or-pay è stato parzialmente affrontato dall’EDPB con l’opinion 8/2024 nell’ambito delle grandi piattaforme online. Dopodiché, silenzio. Pari a quello del Garante Privacy a riguardo che perdura dal 22 novembre 2022, data dell’ultimo comunicato.

Non è questo il silenzio che preoccupa maggiormente. Auspicabilmente, ci vedo un cartello lavori in corso mentre c’è uno scambio di informazioni e vengono chiesti chiarimenti a riguardo. Comprensibile.

Certo, sembra strano che gli editori non siano stati destinatari di provvedimenti d’urgenza né abbiano applicato in modo spontaneo dei correttivi sospendendo la pratica. Il tutto mentre per oltre due anni si stanno proseguendo attività di trattamento di dati personali la cui liceità deve essere dimostrata, con correlati profitti e l’invio a terze parti (in alcuni casi, nell’ordine di grandezza delle centinaia) per finalità di advertising. Ma questo è un pensiero che guarda più al metodo che al merito, soprattutto considerata l’esperienza degli interventi ben più decisi intrapresi nell’ambito di analoghe “incertezze” riguardanti però l’impiego di sistemi di Intelligenza Artificiale.

Ciò che preoccupa maggiormente è piuttosto il silenzio dei professionisti della privacy a riguardo. Perché forse è spiacevole dover ammettere che una testata online che pubblica i propri articoli, o un gruppo editoriale che promuove i propri scritti, si trovi in una condizione di dubbia liceità nell’aver adottato in quel modo il paywall.

Vero, c’è anche la facile risposta servita: lasciamo che l’istruttoria produca il suo esito.

Senza bisogno di commenti ulteriori. Beati i poveri di spirito critico.

Tutta colpa della crisi?

Si potrebbe invocare la crisi dell’editoria online per giustificare questo approccio. Una sorte di tengo famiglia elevato a scusa per l’intero business model. Peccato però che esistano altre strategie rispetto al baiting o alla forzatura dei consensi ad esempio.

Bisogna reinventarsi, però. Cambiare in un mondo che cambia.

Anche perché il guadagno nell’immediato si disperde nel lungo periodo. Mentre chi aumenta la qualità dei contenuti e la fiducia del pubblico, forse ha più possibilità di realizzare strategie di successo.

Ad esempio, nel mondo emergente dei creator digitali si realizzano nuove modalità per fare informazione online, in alcuni casi con veri e propri telegiornali (ad es. su Twitch o su YouTube). Il tutto, senza contributi pubblici né il bisogno di estorcere o forzare dei consensi, ma finanziato da sponsorizzazioni e sottoscrizione di abbonamenti. Grazie alla forza della community e alla capacità di veicolare contenuti d’interesse.

Sappiamo che Video Killed the Radio Star e quindi i paradigmi possono mutare nel tempo.

Resistere all’evoluzione raramente si è mai rivelata una scommessa vincente, men che meno quando questa scommessa viene pagata con i dati personali della propria utenza di riferimento.

Perchè prima o poi, gli utenti, se ne accorgono.

Con tutte le conseguenze del caso.

La privacy spiegata bene e fatta meglio. Artigianale. A misura d’uomo.

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